Si parla sempre più spesso della necessità di impostare la produzione industriale secondo una visione nuova ed ecologica, quale unico percorso possibile verso una società più naturale e sostenibile. Questo concetto generale, di certo condiviso e apprezzato da molti, qualora applicato in modo rigido porta con sé ricadute, in termini di soluzioni pratiche, non certo semplici da gestire. È umana la necessità di capire, già prima di farle, come certe scelte, sebbene giuste, andrebbero a impattare nel concreto sulla vita delle aziende e della società. Palese è il caso di restrizioni ambientali che, per quanto sacrosante, ha ottenuto l’effetto di lasciar fallire aziende sul nostro territorio, subito sostituite da produzioni realizzate, sempre per noi, poco al di fuori dei nostri confini. È anche evidente il risultato di una mancanza di programmazione: la Cina rappresenta ora il più grande ‘inquinatore’ al Mondo con biasimo di tutti. Ma, se si considera l’inquinamento cinese sulla base dei mercati di destinazione dei prodotti, la visione cambia in modo radicale. In sostanza, nel generale concetto di globalizzazione, abbiamo spinto gli altri a inquinare per noi. Abbiamo persino acconsentito di buon grado di perdere fette di competitività e PIL, tenendo a caro il tentativo di salvaguardare l’ambiente, almeno quello più vicino a casa, pur di non ridurre di molto le nostre pretese.
Accettando di trascendere da tutte queste considerazioni, compresa la tentazione di capire cosa significherebbe dare seguito a una vera politica di ecosostenibilità, tentiamo almeno di teorizzare come si configuri un modello di società sostenibile. Per far questo potrebbe tornare utile paragonare il sistema industriale a quello naturale. Il sistema naturale, che ha permesso a una infinità di esseri viventi (compreso animali e vegetali) di sopravvivere per milioni di anni su un pianeta sostanzialmente piccolo e in continua evoluzione, mostra una caratteristica essenziale: è in equilibrio. Per cui, triste forse a dirlo, è assai probabile che debba esserlo anche qualsiasi sistema umano che intenda sopravvivere sui lunghi periodi senza essere costretto a sperare nella tecnologia o nella continua ricerca di nuove risorse. Ma non è solo questo che si impara osservando i sistemi naturali. Un concetto interessante, non ancora investigato come conseguenza, ma che rappresenta proprio l’opposto di quanto accade nei sistemi industriali, è che in quelli naturali si fa utilizzo di poche, ma fondamentali risorse per sopravvivere, rimesse continuamente in circolo. È il caso dell’acqua come anche del carbonio. Questa differenza è oggettivabile nel piccolissimo numero di elementi chimici che sostiene la vita (carbonio, ossigeno, azoto, idrogeno), benché combinati in modo molto complesso, a fronte di un’industria che ne dissipa un’infinità. Sono rari, infatti, gli elementi chimici per cui non abbiamo trovato ancora un’applicazione. Questa evidenza potrebbe sembrare rendi merito alla nostra intelligenza e capacità di plasmare il mondo sempre meglio, ma potrebbe anche rappresentare una chiara prova di come si stia ormai ‘raschiando il barile’. Purtroppo gli attuali sistemi industriali sono ancora pensati per essere dei ‘cicli aperti’, caratterizzati da ‘processi lineari’ che trasformano materiali producendo rifiuti, senza sottosistemi che riescono a re-utilizzarli. Alcune interessanti eccezioni esistono, come ad esempio, nel recupero dei rottami dove le fonderie sono in prima linea, ma si tratta ancora di situazioni imperfette, con cicli non perfettamente chiusi. Le logiche di mercato, qualora lasciate libere, permetteranno mai di chiuderli?
Leggi qui l'articolo originale di Cristiano Fragasso su Fonderia - Pressofusione
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